Il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella
entra nel "semestre bianco": cosa significa, perchè fu scritta questa norma e cosa prevede?
Roma, 1.08.2021 corriere - Dal 3 agosto il presidente
Mattarella non potrà sciogliere le Camere: se cade il governo resta un’opzione
estrema. Storia di una norma nata per timore di un golpe «legale»
«Un piccolo colpo di stato legale». Era questo il
pericoloso scenario che Renzo Laconi, membro dell’Assemblea costituente per il
Pci, tratteggiò davanti ai colleghi impegnati con lui a scrivere la nostra Magna Charta se non
fosse stata tolta ai capi dello Stato la facoltà di sciogliere le Camere
durante gli ultimi sei mesi del loro mandato. Secondo l’esponente
comunista sardo, infatti, c’era «il rischio» che un presidente in scadenza
congedasse il Parlamento soltanto «per aver prorogati i propri poteri e
avvalersi di questo potere prorogato per influenzare le nuove elezioni».
Dubbi e diffidenze
a futura memoria. Uno scrupolo maturato sull’idea che fosse necessario tutelare
al massimo l’appena nata democrazia italiana. Per Laconi serviva insomma una norma che fungesse da
antidoto in grado di rendere non praticabili tentazioni manovriere e di stampo
autoritario da parte di un presidente, chiunque fosse. Il quale
presidente, se le cose fossero invece rimaste come si era fino a quel momento
previsto, avrebbe potuto esercitare pressioni o addirittura sbarazzarsi in
anticipo degli inquilini di Montecitorio e Palazzo Madama, per far eleggere
assemblee a lui più favorevoli e confidare magari in un secondo mandato.
Era più
che altro una suggestione. Ma allora — si era tra il 1946 e il gennaio del ’48
— i timori di un fascismo risorgente in nuove forme erano ancora diffusi. E
bastarono a far approvare di corsa il secondo comma dell’articolo 88, nel quale
si introduceva il «semestre bianco» con cui da domani dovrà fare i conti Sergio
Mattarella. Un
«buco nero», lo hanno definito (senza troppa fantasia cromatica), perché
annichilisce l’arma più forte della quale il capo dello Stato dispone. Cioè la
minaccia di spedire tutti a casa, nel caso si materializzi una crisi senza
uscita. Ipotesi non del tutto peregrina, considerate le sempre meno latenti
tensioni nella maggioranza.
Mattarella
deve averci pensato sopra, visto che il 2 febbraio scorso, mentre si preparava ad affidare
l’incarico di governo a Mario Draghi, trovò modo di rievocare la frustrante
esperienza di un suo predecessore, Antonio Segni. Ricordò che nel
1963 lo statista sassarese aveva inviato un messaggio alle Camere in cui
spiegava come fosse «opportuno introdurre in Costituzione il principio della
non immediata rieleggibilità del presidente della Repubblica», puntualizzando
che «il periodo di sette anni è sufficiente a garantire una continuità
nell’azione dello Stato».
Segni
aveva aggiunto che la sua proposta, oltre a «eliminare qualunque, sia pur
ingiusto, sospetto che qualche atto del capo dello Stato sia compiuto al fine
di favorirne la rielezione», imponeva un altro, conseguente passaggio.
«Abrogare» la disposizione che mutila il potere di scioglimento quando il
settennato di un presidente sta per concludersi. Il fatidico semestre, appunto, rimasto sempre
intatto. Unica eccezione, una modifica funzionale votata dal
Parlamento nel 1991, per evitare «l’ingorgo istituzionale» che si crea quando
la fine di una legislatura coincide con la fine di un incarico al Quirinale
(avveniva con Cossiga «regnante»).
E qui è
inevitabile porsi una domanda. Il «semestre bianco» ha ancora senso? «Non ne ha
molto» per l’ex presidente della Consulta Valerio Onida, il quale rammenta come
i capi dello Stato «non sono mai diventati finora quel che poteva spaventare i
costituenti, e ciò rappresenta quasi una garanzia... Senza calcolare che, al di
là del problema della rieleggibilità, non è comunque vero che possano
sciogliere le Camere come e quando vogliono, a loro discrezione». Opinione condivisa da Giovanni
Maria Flick, anch’egli emerito della Consulta, che considera il
semestre bianco «superato e contraddetto dai fatti», ossia dalla
interpretazione «elastica ma, nella sostanza costituzionalmente corretta, alla
quale si sono tenuti i capi dello Stato». Di preoccupante, per lui, c’è semmai
«la prospettiva che adesso scatti nei partiti una logica da liberi tutti con
rincorsa a litigare, a costo di rompere l’alleanza di governo, nella poco
responsabile convinzione che tanto Mattarella non può fare niente».
Ecco il
punto politico, fondato
sulla prospettiva che tra ventiquattr’ore si apra al Quirinale un drastico
vuoto di potere che farebbe del capo dello Stato un’autorità disarmata.
Non è così. Non del tutto, almeno. A Mattarella restano intatti i poteri di
nomina, di firma, di rinvio delle leggi, di inviare messaggi al Paese, oltre
alla prerogativa di usare la moral suasion, ormai entrata nella Costituzione
materiale.
Certo, se
i partiti più inquieti, pur di lucrare consensi o di preservare i voti
mantenuti nonostante le fratture interne (come Lega e M5S) determinassero una
crisi senza rimedio, tutto si complicherebbe per il Quirinale. Al quale
resterebbero poche opzioni. La prima: mantenere l’esecutivo dimissionario in carica per
l’ordinaria amministrazione, e la storia della Prima Repubblica ci
consegna esempi di premier sfiduciati che, tra verifiche e negoziati, tirarono
a campare per più di 200 giorni (senza trascurare i precedenti di Belgio e
Austria, dove si traccheggiò per più di un anno). La seconda opzione: consapevole
di trovarsi davanti a una crisi ingestibile, che diventa di sistema, Mattarella
la fa precipitare dimettendosi e da quel passaggio lo scioglimento delle Camere
dipenderebbe dal suo successore. Non sono solo congetture estreme.
Ed è meglio incrociare le dita.